La nave bianca (1979)

dal romanzo di Cingiz Ajtmatov

  • image
  • image
  • image
  • image
  • image
  • image


La Nave Bianca è una favola triste, ambientata tra le montagne della Kirghisia: lì vive il piccolo protagonista, un bambino di otto anni, solo in un mondo di adulti di cui rifiuta la grettezza e l’egoismo.

Le sue giornate sono dedite al silenzio e alla contemplazione della natura che lo circonda e di cui subisce il fascino e le suggestioni misteriose.

La foresta, il fiume e il grande lago azzurro sono per il bambino motivo di riflessione sul suo rapporto coi grandi, su ciò che è bene e male, su ciò che è giusto e ciò che non lo è.

Il bambino, abbandonato dai genitori, non ha un nome (o perlomeno non viene mai chiamato per nome) ed è circondato da persone ostili ad eccezione del nonno che è l’unico a volergli bene.

Il nonno gli racconta la storia del popolo kirghiso che secondo la leggenda risale ad una Madre Cerva assunta quasi a divinità.

A sé stesso invece il bambino racconta sempre un’altra favola: quella che lo vede trasformarsi in pesce, che gli permetterà di nuotare nel grande lago e di raggiungere la Nave Bianca su cui naviga suo padre.

Il bambino si aggrappa ai sogni - gli altri personaggi del racconto non ne hanno - per sfuggire a una realtà violenta e anaffettiva che lo consuma un giorno dopo l’altro.

L’ultimo atto di questo crescendo doloroso è l’uccisione da parte del nonno di una cerva - la forma più alta di sacrilegio - che porterà il bambino a discendere al fiume, a entrare nell’acqua gelida, a trasformarsi definitivamente in pesce fino a raggiungere per sempre la Nave Bianca.


La nave bianca non è una favola di principi e fate; è la storia/realtà di un bambino indifeso nel mondo dei grandi: capace di amare, di credere, di soffrire come solo i bambini sanno fare; capace d inventare per sé stesso una favola dove la natura amica prende nome, forma e storia.

Capace di vivere completamente ciò che la favola rappresenta.

Nel 1979 - Anno Internazionale dell’Infanzia - Gianni Colla decide di mettere in scena un testo duro, difficile, in cui si parla di infanzia negata.

Come lui stesso spiega prima di alzare il sipario, lo spettacolo non propone soluzioni, ma invita a riflettere sull’impoverimento che la solitudine provoca nei bambini; non suggerisce formule, ma conduce spontaneamente lo spettatore alla necessità di non perdere mai di vista i loro bisogni.

La messa in scena di questo racconto - realizzata con sole marionette - è di forte impatto: i volti dei personaggi - le sculture in legno di Adriana Dzimidzik - esprimono tutta la sofferenza di questa favola triste, che commuove e induce a pensare.

Le scene e i costumi sono di Cornelia Frigerio.