la nostra storia

le origini (1835)

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La compagnia di Gianni e Cosetta Colla è un ramo di una delle famiglie più importanti della tradizione marionettistica italiana.

Recenti studi rivelano l’esistenza di permessi per rappresentazioni marionettistiche concessi a Giovanni Colla a partire dal 1812 (Archivio di Stato di Parma).

A prescindere da quest’ultimo ritrovamento è comunque assodata la continuità artistica della famiglia a partire da Giuseppe Colla (1805 - Soresina 1861): il primo dato certo sulla sua attività è attorno al 1835 e si hanno testimonianze di spettacoli rappresentati in Lombardia, Piemonte ed Emilia.

Alla sua morte il patrimonio viene diviso tra i figli Carlo, Antonio e Giovanni; da quest’ultimo discende Giacomo (Piacenza 1860 - Olgiate Olona 1948), titolare di un’importante compagnia marionettistica di giro (Primaria Compagnia Marionettistica Giacomo Colla e Famiglia) la cui maschera è Famiola.

Sposato con Francesca Marchesi, ha otto figli molti dei quali lo affiancano nell’attività teatrale; l’ultimo è Giovanni (detto Gianni) che nasce a Rivoli (Torino) il 20 novembre 1906.

Gianni, a Natale, riceve sempre lo stesso dono: delle piccole marionette costruite a regola d’arte dal padre Giacomo.

Fin dall’età di sei anni l’accesso in palcoscenico gli è concesso con tolleranza e a lui quel luogo appare come un immenso negozio di giocattoli.

Il suo divertimento preferito è mettere scompiglio nei bauli e nelle casse dove, con estrema cura, stanno pigiati i costumi delle marionette, gli abiti, le parrucche, scarpe e cappelli d’ogni epoca.

Nella tradizione del teatro è molto importante avere una famiglia numerosa e la questione della trasmissione del mestiere comporta che ogni membro della famiglia abbia requisiti tecnico-artistici sia specifici, sia generici, ma i più elevati: disegno, scultura, pittura, recitazione, tecnica di animazione; oltre a capacità di macchinistica, scenotecnica e attrezzeria.

A sedici anni Gianni si prepara ad imparare la professione paterna: è questa l’età normale di ogni apprendista ma la formazione di un marionettista sfugge ai limiti, per quanto ampi, della nozione di professionalità.

L’eredità di un bagaglio del genere non è riconducibile solo al patrimonio di caratteristiche strumentali, tecniche e culturali: si estende a quella imprecisata dimensione che si dice comunemente “la personalità”.

Anche se la mia preparazione era già formata – racconta Gianni – non si creda che tutto andasse da sé; restava il problema della decisione o, forse, l’illusione di poter fare una scelta. Bisogna sapere senza retorica che inscindibili sono la marionetta e il marionettista e che fare la scelta significa sentire in sé, e non per delega di un padre o di un maestro, la spinta a essere artista. Ma non è tutto, bisogna tenere conto che fatta la scelta professionale, restava da decidere l’adesione alla linea artistica e culturale.

Il teatro delle marionette allora non si rivolge ai ragazzi ma agli adulti e questo per Gianni è inconcepibile; verso i diciassette anni incomincia a nutrire una posizione di vero rifiuto: avverte che il teatro delle marionette deve avere un destino diverso.

Fino agli anni Quaranta la tecnica scenografica, i costumi, l’animazione sono prestigiosi e raggiungono un verismo così sofisticato che si spinge all’imitazione più sfrenata, alla simulazione fastosa ma velleitaria senza però appropriarsi delle tecniche e degli stili innovativi già in auge nel teatro di prosa.

Ma che spirito era? – si chiede Gianni – Era il verismo più esasperato che con i mezzi decrepiti della bottega artigiana cercava di fotografare il vero.

La cura del materiale scenico di ogni spettacolo è un rituale che si svolge quotidianamente: centinaia di marionette (come per esempio le interpreti de Il giro del mondo in ottanta giorni di Jules Verne e de I promessi sposi di Alessandro Manzoni) vengono controllate e messe a punto dalla famiglia, sotto l’occhio vigile del severo padre Giacomo.

Riguardo al maneggio poi, il capocomico è oltremodo esigente: i minimi dettagli delle movenze del suo popolo di legno sono soggetti a regole inflessibili e soprattutto a un costante esercizio.

Io che sono il più giovane della famiglia – ricorda Gianni – non ricordo se con i miei fratelli abbiamo ricevuto da mio padre delle vere lezioni in senso scolastico-accademico. A me capitò una sola volta, a circa nove anni, quando mio padre, inaspettatamente, m’impose di salire con lui sul ponte di manovra dove mi mise tra le mani una marionetta nuda, retta unicamente da tre fili: due che, partendo dall’estremità del bilanciere, andavano a collocarsi alla testa della marionetta, mentre il terzo filo, allacciato all’estremità inferiore del bilanciere, andava a fissarsi con strettissimo nodo a una cambretta che stava sul dorso della marionetta. Confesso che mi tremavano le mani, e così ebbe luogo la prima e ultima lezione impartitami da mio padre.

Questa fu la mia accademia, ma fu anche il mio cruccio. – continua Gianni – Se quando parlavo di un progetto per Pinocchio mio padre mi costringeva al silenzio con il suo sguardo imperioso, la questione aveva una portata che andava ben oltre il mio rapporto con lui. La tirannia che mio padre esercitava su di me era la stessa che tutto un sistema, ormai obsoleto, esercitava sul teatro delle marionette. Non si trattava più, insomma, di una baruffa familiare. Così Pinocchio divenne mio compagno di strada e nuovo capostipite di un popolo di legno da liberare. Se il destino del teatro delle marionette è quello di specificarsi come teatro per ragazzi, ma con la T maiuscola, se Pinocchio per la nostra storia ne è il capostipite, allora finalmente non dovrò fare i conti con un fardello personale legato alla tradizione. Incomincerò da qui. In questo senso, ci tengo a precisarlo, solo in questo modo devo agire partendo da un’idea, quella di essere il primo marionettista.



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